Oggi parliamo del ROI, un indicatore che sembra semplice e banale ma che, in realtà, presenta non poche insidie.
Questo indicatore, ampiamente utilizzato, esprime la redditività del capitale investito, è il c.d. Return on Investments, ossia il rendimento sugli investimenti.
Più precisamente, valuta la capacità dell’impresa di impiegare efficientemente le risorse a disposizione e misura la redditività corrente del capitale investito nella gestione, a prescindere dal tipo di fonti di finanziamento utilizzate.
Ma come si calcola il famoso ROI?
In realtà, la formula sembra immediata e banale:
Ci piace immaginarlo come l’indicatore che mette a rapporto il valore della «torta» aziendale rappresentata dal reddito operativo (o EBIT) con quanto è stato investito nel «forno» per realizzarla, rappresentato dal Capitale Investito in azienda.
Per approfondire il tema segnaliamo il libro "Il Forno e la Torta - l'analisi di bilancio nella logica gestionale" di Diana Lesic e Ivan Fogliata, edito da Mind Edizioni e parte della collana di libri di inFinance Keep it Simple! - il libro è disponibile su Amazon e nelle principali librerie fisiche e online.
Per quanto riguarda il reddito operativo, ci è necessario un conto economico riclassificato che ci consenta di isolare l’EBIT e, quindi, a chiederci quale sia la redditività delle operations aziendali.
Attenzione però, molte sono le “trappole”.
L’Ebit sconta anche ammortamenti e svalutazioni...
Immaginate ora di porre a costo ammortamenti pesantemente magnificati da rivalutazioni di marchi e immobili: avreste un reddito operativo poco significativo…
Oppure, immaginate che la proprietà non ami attendere gli utili ma opti per generosi compensi amministratori: l’EBIT risulterebbe molto contenuto quando la redditività in realtà è molto più alta.
Vi avevamo già detto che il diavolo è nei dettagli? In tutti i casi è bene “capire” i bilanci e operare normalizzazioni ove necessario prima di affidarsi ad un indice.
Anche ottenere il capitale investito non è così semplice
Tanti pensano che sia sufficiente porre a sistema il reddito operativo col totale dell’attivo.
In realtà non è così.
Il capitale investito è un concetto differente e non equivale al totale dell’attivo (per questo esite il ROA ovvero il Return on Assets) !!
E, quindi, da cosa è formato il capitale investito?
È costituito dagli attivi netti (net assets) e dal capitale circolante (working capital).
I debiti verso fornitori e il passivo corrente vengono, quindi, già sottratti dall’attivo.
L’attivo, infatti, viene “nettato” dalle passività correnti.
In questo modo otteniamo il vero capitale che lavora, ovvero il nostro “forno”, che è proprio il capitale che è investito in azienda.
Anche gli eccessi di liquidità attiva vengono utilizzati per ridurre direttamente il debito finanziario e determinare la c.d. “posizione finanziaria netta” che assieme a mezzi propri e debiti fiscali rappresentano le coperture che finanziano il capitale investito netto.
Proseguiamo nell’analisi del ROI e andiamo a studiare come è fatto per capire perché è, contemporaneamente, l’indice dell’efficacia e dell’efficienza.
Il ROI può essere scomposto in due componenti che lo costituiscono.
Se questo valore fosse pari ad esempio pari a 3, significherebbe che il valore della produzione è riuscito a far girare tre volte il capitale investito.
Più l’indice è elevato più riusciamo, quindi, a creare molto volume con poco capitale investito, siamo quindi più efficienti.
Cosa succede quindi se moltiplichiamo l’efficacia (il ROS) per l’efficienza (il turnover)?
Beh, il valore della produzione a denominatore del ROS si semplifica con lo stesso valore a numeratore del turnover restituendoci nuovamente il ROI.
Per migliorarlo occorre essere più efficaci e/o più efficienti: ossia riuscire a produrre più reddito operativo a parità di capitale investito, oppure produrre lo stesso reddito operativo riducendo il capitale investito.
Ed ecco spiegata “la magia” del ROI che in un solo indice esprime due grandi anime aziendali: l’efficacia e l’efficienza.
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