Negli ultimi anni abbiamo assistito ad una crescente consapevolezza riguardo alle tematiche ambientali nel dibattito pubblico: gli evidenti effetti dei cambiamenti climatici e le ingenti ricadute in termini di impatto socio-economico hanno orientato i legislatori europei a concentrare gli sforzi per creare una strategia di crescita sostenibile e volta alla trasformazione dell’Europa in una società ad “impatto climatico zero” con l’obiettivo dichiarato nel “Green Deal europeo” di raggiungere, entro il 2050, la neutralità climatica.
Nell’alveo di questi virtuosi obiettivi, il mondo della finanza si è rapidamente adeguato, orientandosi verso la c.d. “finanza sostenibile” mediante l’introduzione dei fattori ESG (Environmental, Social, Governance) ovvero una serie di criteri utilizzati dagli investitori al fine di valutare il comportamento sostenibile (o meno) delle aziende in cui intendono investire che contemplino, oltre all’aspetto sociale e di governance dell’impresa, anche le politiche, le pratiche e le performance adottate dalle imprese al fine di limitare (e ridurre) l’impatto sull’ambiente delle loro politiche.
Una domanda a questo punto sorge spontanea.
Qual è il costo a carico delle aziende di una mancata gestione dei rischi ambientali?
La risposta è tutt’altro che scontata: un maggior rischio d’impresa.
Una recente ricerca di MSCI condotta nel quinquennio 2017-2022 ha evidenziato come le società con rating ESG maggiore abbiano registrato un minor rischio specifico del corso dei titoli azionari rispetto a quello dei diretti competitor.
La correlazione diretta tra il rischio dell’impresa e la mancata gestione della tematica ambientale (ma anche sociale e di governance) è figlia di un potenziale aggravio di oneri in capo alle imprese, derivante: sia da costi diretti (si pensi ad un’impresa che debba sostenere ingenti oneri per adeguamenti ambientali eccessivamente rimandati nel tempo) sia da costi indiretti, legati al repentino cambiamento delle normative sulle emissioni inquinanti (ovvero i c.d. costi della transizione ecologica) o dalla perdita di quote di mercato a causa delle crescenti preferenze dei clienti verso l’acquisto di prodotti e servizi sempre più “sostenibili”.
La maggior rischiosità d’impresa associata al mancato rispetto dei fattori ambientali ed ESG influisce negativamente anche sul rating e, di conseguenza, sul costo del debito delle aziende.
L’EBA (European Banking Authority), con l’emanazione delle linee guida LOM (Loan and Monitoring) ha esplicitamente “invitato” le banche europee a “valutare l’esposizione del cliente ai fattori ESG, in particolare ai fattori ambientali e all’impatto sul cambiamento climatico, e l’adeguatezza delle strategie di mitigazione” al fine di valutare “i rischi associati ai fattori ESG, per il contratto di prestito e il relativo esborso”.
La stessa Banca d’Italia è intervenuta sul tema, rilevando come nel 2020 il 65% dei prestiti bancari sono stati concessi ad imprese che in Italia sono soggette a rischi climatici diretti ed indiretti. Nell’ottica di premiare le imprese maggiormente virtuose in tema di sostenibilità ambientale e, conseguentemente, ridurre il rischio in capo ai finanziatori, abbiamo assistito alla progressiva diffusione di nuovi covenant collegati al perseguimento di specifici obiettivi di sostenibilità ambientale.
Tali covenant, denominati “green covenant” consentono all’impresa finanziata di legare le condizioni del finanziamento o dell’obbligazione al raggiungimento di specifici target ambientali (ad esempio in termini di riduzione della CO2 emessa o in relazione alla quantità di energia rinnovabile prodotta) o al conseguimento di specifici punteggi aziendali in tema di rating ESG.
Di conseguenza, il mancato rispetto dei “green covenant” comporta il verificarsi di eventi di “step up” che generalmente prevedono un incremento del tasso d’interesse applicato sul prestito, sino ad arrivare addirittura alla possibile decadenza dal beneficio del termine del finanziamento “sustainability-linked”.
Chi li inserisce e dove vengono inseriti?
I "green covenant" possono essere previsti dalle banche nei contratti di finanziamento (finanziamenti per i quali le banche stesse nella maggior parte dei casi hanno raccolto risorse pubbliche o private espressamente dedicate ai finanziamenti green) per garantirsi il rispetto degli obiettivi di investimento in sostenibilità.
Altresì, tali clausole possono essere “autoimposte” dagli emittenti di prestiti obbligazionari (i c.d. “green bond”): i medesimi, usualmente grandi imprese quotate, mirano ad ottenere risorse finanziarie a condizioni migliori e più rapidamente proprio grazie all’impegno in sostenibilità.
Come rendere tale impegno credibile?
Autotassandosi ove gli obiettivi non vengano raggiunti.
Vediamo un esempio: Bond ENI legato alla sostenibilità (ENI sustainability-linked bond 2023-2028).
Il tasso annuo lordo è del 4,30%, ma le “obbligazioni sono collegate al conseguimento dei seguenti target di sostenibilità che seguono:
A fronte del raggiungimento da parte di Eni dei target sopra riportati, il tasso di interesse nominale annuo lordo rimarrà invariato sino alla scadenza delle Obbligazioni.
In caso di mancato raggiungimento di anche uno solo dei due target, il tasso di interesse relativo alla cedola pagabile alla data di scadenza (10 febbraio 2028) sarà incrementato dello 0,50%.
Un interessante esempio di come la stipula dei “green covenant” contribuisca a vincolare le imprese verso il perseguimento di concreti obiettivi ESG, indirizzando il mondo della finanza verso una crescita sempre più sostenibile.
Questi covenant possono includere requisiti come la riduzione delle emissioni di gas serra, il miglioramento dell'efficienza energetica, l'adozione di pratiche di lavoro eque, la protezione della biodiversità, o qualsiasi altro obiettivo che promuova la sostenibilità e la responsabilità sociale.
Come abbiamo visto devono essere obiettivi concreti e misurabili e non mere indicazioni di principio.
L'integrazione dei "green covenant" nei finanziamenti è un segnale dell'importanza crescente che investitori e prestatari attribuiscono alla sostenibilità e all'impatto sociale delle loro attività, riflettendo un vero e proprio cambio di paradigma anche nei sistemi di misurazione e di controllo di gestione aziendali.
Autore: Ufficio studi inFinance
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